Sicurezza alimentare

Che cosa sono i food desert?

Quando il cibo sano e nutriente non è per tutti

 

Il termine ” deserto alimentare ” si riferisce ad aree geografiche in cui l’accesso a cibi sani e convenienti , come frutta fresca, verdura e cibi ricchi di proteine ​​come carne e pesce , è limitato o addirittura inesistente. La ragione? I supermercati sono troppo lontani o la popolazione in queste aree marginali del pianeta è indigente.

Secondo il rapporto del 2017 , le stime più recenti del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA), circa 54,4 milioni di persone , ovvero il 17,7% della popolazione statunitense, vivono in queste aree . Sono chiamati “deserti alimentari” perché hanno un tasso di povertà maggiore o uguale al 20%, un reddito inferiore o uguale all’80% del reddito medio nazionale e il supermercato più vicino a più di mezzo miglio di distanza per le aree urbane o più di 10 miglia per le aree rurali.

I #FoodDeserts sono quelle aree geografiche in cui l’accesso a #alimenti #sani e a prezzi ragionevoli, come frutta fresca, verdura e #alimenti ricchi di #proteine ​​come #carne e #pesce, è molto limitato.FARE CLIC PER TWITTAREMa il problema è ancora più grave di quanto pensiamo , considerando che il North American Industry Classification System (NAICS) colloca i piccoli negozi di alimentari all’angolo (che spesso vendono alimenti confezionati ) nella stessa categoria dei supermercati come Safeway e Whole Foods.

La pandemia di Covid19 ha reso più difficile per tutti l’acquisto di cibo e altri beni essenziali, peggiorando la situazione in queste aree già problematiche . A causa della crisi economica, il numero delle regioni a rischio di diventare deserti alimentari può aumentare notevolmente , a causa dell’alto livello di disoccupazione , dell’ulteriore calo dei redditi, della mancanza di trasporti pubblici, soprattutto nelle zone rurali, e di un basso numero di rivenditori di generi alimentari che forniscono prodotti freschi a prezzi accessibili .

Per non parlare dei gravi effetti negativi per la salute che comporta: le persone che vivono in un deserto alimentare hanno, infatti, un’esposizione 2,5 volte superiore a cibi malsani iperelaborati, ricchi di carboidrati, sale e grassi , con conseguente maggiore incidenza di ipertensione, obesità, diabete e malattie cardiovascolari . Per fare un esempio, a Chicago, il tasso di mortalità per diabete in un deserto alimentare è il doppio di quello delle aree con accesso regolare ai supermercati.

Chi vive in un #FoodDesert ha un’esposizione 2,5 volte maggiore a #UnhealthyFood, come cibi iperelaborati ricchi di #carboidrati, #sale e #grassi, e una maggiore incidenza di #ipertensione, #obesità, #diabete e…FARE CLIC PER TWITTAREPurtroppo anche in Europa si stanno diffondendo sempre di più gli alimenti iperlavorati , motivo per cui abbiamo bisogno di uno strumento prezioso per riconoscerli ed evitarli. A tal proposito, l’etichetta Nutriscore non aiuta nella scelta giusta del cibo sano : infatti un vassoio di prosciutto crudo DOP è etichettato con luce rossa, mentre il verde è dato a una confezione di cereali per la colazione al cioccolato o un vasetto di pronto cotto mangiare la pasta alla carbonara, dando così il via libera ai cibi iperlavorati e penalizzando ingiustamente i prodotti genuini tipici del “Made in Italy” mediterraneo tipico .

C’è ancora molto da fare, ed è compito dei decisori identificare le aree a rischio di diventare deserti alimentari , migliorando l’accesso al cibo per garantire una dieta sana. Secondo le più aggiornate linee guida dietetiche americane 2015-2020 , una dieta sana dovrebbe includere un’ampia varietà di frutta e verdura, cereali integrali, latticini, carne e pesce, uova, legumi, noci e semi , riducendo a allo stesso tempo calorie e limitando l’assunzione di grassi trans, zuccheri e sodio . Ma è anche necessario fornire strumenti per aiutare il consumatore nelle sue scelte verso un’alimentazione sana ed equilibrata, sperando che il cibo sano non diventi sempre più un’utopia o un privilegio per pochi.

I deserti alimentari una prospettiva all’orizzonte anche in Italia ed una sfida per l’agricoltura delle zone rurali marginali – Alcune idee nella direzione di identificare soluzioni

I deserti alimentari (Food Deserts) sono un nuovo termine con il quale viene denominato un problema finora prevalentemente oggetto di studio da parte di ricercatori scientifici, particolarmente britannici e statunitensi, ma in concreto è una circostanza non nuova con la quale si cominciano a scontrare le popolazioni dei centri rurali molto isolati, o in fase di complessivo declino economico: diviene sempre più difficile procurarsi (alcuni) alimenti, in seguito alla chiusura dei piccoli esercizi commerciali, specialmente da parte di anziani, che vivano in zone montane e/o siano privi di mezzi di trasporto.
Tutto ciò pare inevitabile se si considera che in molti di questi luoghi la scarsa clientela riduce le attività commerciali a limiti di sussistenza ed i costi, anche di origine normativa, finiscono con lo spingere alla chiusura le residue rivendite di alimenti. Un tempo nell’unico negozio di tante piccole frazioni venivano venduti beni molto diversificati, mentre attualmente fuori da molti negozi viene invece esposta la categoria di beni di cui è autorizzata la vendita.
Trovare una soluzione per problematiche di questo tipo è cosa alquanto complessa poiché sicuramente molti sono i fattori determinanti e solo delle ricerche scientifiche unite ad una buona conoscenza delle normative e delle politiche economiche di sviluppo rurale possono permettere di analizzarne le cause nel dettaglio e con precisione, valutandone anche la reale incidenza. Di qui l’attualità del termine ‘deserti alimentari’, coniato appunto da studiosi della Sociologia Rurale, che impegnati nell’investigare le abitudini della gente che vive nelle campagne, hanno colto problematiche non sempre così evidenti, anche quando rilevanti, ed hanno proposto per esse delle possibili soluzioni.
Tutto ciò non ci impedisce di poter comunque effettuare un breve approfondimento per tentare di focalizzare quelle abitudini negative che nel breve, o medio periodo si potrebbero ritorcere su noi stessi, come possibili abitanti di un futuro ‘deserto alimentare’.

Le zone rurali viste dall’abitante di città sono spesso oggetto di interesse per la qualità della vita che in esse può essere condotta. Tale qualità dipende, da un lato, da quanto si sappia rinunciare alle comodità offerte dalla vita in città e per altro verso da quanto gli enti locali confidino nella capacità di adattamento della gente tagliando, o evitando di sviluppare servizi a volte essenziali per la qualità della vita.
La percezione dell’elemento qualità della vita, per gente che vive isolata, particolarmente laddove il minore livello di istruzione scolastica riduce l’interesse verso passatempi quali la lettura, lo studio, gli intrattenimenti culturali, passa prevalentemente attraverso le immagini che giungono con i canali della televisione, per alcuni unica opportunità di distrazione. Cosa ci comunicano gli schermi, in relazione ai costumi ed abitudini di vita? Nuove mode, innovazioni tecnologiche, grandi città affollate di gente all’apparenza benestante e senza problemi, grandi eventi e complessivamente luoghi dove la solitudine è un problema che sembra non esistere.
Per la gente delle campagne la vita in città pare essere un’aspirazione latente ed infatti in molte località rurali la popolazione è ormai prevalentemente anziana; i pochi rimasti tornano durante i week-end, ma lavorano in città. Questo fatto ci mostra che, a sapersi adattare, la vita rurale è ancora oggetto di interesse; l’unico fattore realmente limitante, per poter vivere confortevolmente in questi luoghi, è la disponibilità di lavoro.
Per altro verso in città non è raro vi sia gente che vive senza uscire a lungo di casa, pur avendo vicina ogni forma di comodità. Quello che manca è forse la quiete e la tranquillità della vita rurale, almeno per come appare essere, sempre attraverso la televisione, o i nuovi media (internet). Molti abitanti di città hanno dei diversi bisogni e quando si recano in campagna li vedono probabilmente soddisfatti: durante le vacanze i negozi delle zone rurali, in cui vi sia turismo, sono sempre pieni di merci e prodotti tipici, spesso più a buon mercato che in città.
Recandoci però, specialmente in inverno, magari al sabato sera, nei grandi centri commerciali di provincia possiamo cogliere l’ ‘altra faccia della medaglia’, trovandovi lo stesso affollamento del centro delle grandi città, le luci, i colori, le vetrine, la disponibilità di scelta tra molti beni; inoltre opportunità di vita sociale, ma anche un maggiore anonimato rispetto ai piccoli centri. Molta gente sembra disposta a percorrere chilometri per giungere al centro commerciale più vicino, pur avendo a volte, a ridosso di casa, rivenditori di generi di prima necessità.

Guardando ciò che avviene all’estero si può ipotizzare che la solitudine ed i modelli di vita consumistici spingeranno al collasso economico molti piccoli centri rurali, durante i periodi di bassa stagione. E’ quindi forse utile che da un lato la gente prenda coscienza che non vi possono essere mercati locali, o Farmer Markets, se non si condivide appieno la filosofia che vi è dietro, che valorizza, non solo in chiave turistica, gli aspetti positivi della vita in campagna.
Per altro verso, se la popolazione di località rurali più, o meno isolate portano i loro risparmi verso i centri più grandi, riducono necessariamente la circolazione di denaro e la diffusione del benessere nei luoghi in cui vivono.
L’offerta del supermercato anche se più ampia non sempre è comunque sufficiente a soddisfare i bisogni indotti da messaggi della Tv, ma unita ai prezzi ridotti, la possibilità di scegliere personalmente tutti i beni da acquistare, un presumibile maggior controllo sulla qualità delle merci, offerte periodiche, tessere punti, buoni sconto e buoni benzina, può favorire la scomparsa dei piccoli negozi da molte zone rurali, costringendo i suoi abitanti a fare quasi tutti i giorni ciò che prima facevano solo nel week-end.
Ad accorgersi prima di situazioni di questo tipo (‘deserti alimentari’) è la popolazione ormai anziana, specialmente se non dotata di mezzi di trasporto, che costretta ad un’alimentazione non sempre bilanciata, per carenza di vitamine o altre sostanze essenziali, potrebbe sperimentare possibili conseguenze per la salute, o in alternativa aggiungersi ai più giovani che lasciano i piccoli centri rurali (magari antichi villaggi, ma purtroppo isolati), per trasferirsi in città.
Alla lunga, se avviene come studiato all’estero, l’incremento della spesa sanitaria farà percepire il problema anche a chi programma le politiche di sviluppo (policy makers), spingendolo a cercare dei correttivi. In genere non serve imporre divieti, ma è forse più utile fare campagne di comunicazione, per aiutare il consumatore a fare scelte più consapevoli, nel breve, medio e lungo periodo.

Alcune soluzioni/idee per un rilancio dei territori agricolo marginali:

Una possibile soluzione prospettabile per ridare vita a territori marginali, o isolati potrebbe essere la liberalizzazione, in questi luoghi degli orari dei negozi (fissando dei parametri minimi di apertura mensile e settimanale), per permettere sempre al commerciante di mantenere l’attività anche in zone remote, magari vendendo prodotti differenti ed impegnandosi anche in altre attività, come ad esempio un ritorno all’agricoltura part-time e agevolando l’accesso delle produzioni agricole locali al mercato. Laddove invece i negozi manchino già, considerato il ridotto impiego di personale richiesto da una rivendita di alimenti, l’attivazione anche un solo giorno alla settimana di una rivendita pubblica, o di incentivi per il commercio ambulante (o per i Farmer-Markets), relativamente a generi di prima necessità, in zone meno servite, avrebbe probabilmente una buona ricaduta sulla qualità della vita.

Nella definizione e comunicazione delle politiche di sviluppo rurale, potrebbe essere utile curare che venga usato un linguaggio più rispondente, che aiuti a valorizzare il territorio agricolo sulla base delle sue attività e del loro riflesso sul paesaggio, piuttosto che evidenziando in esso, come a volte avviene, elementi di naturalità, che ne esprimono invece la decadenza. In tal senso laddove l’agricoltura è prevalentemente ‘biologica’, bisognerebbe sfatare l’idea collettiva dell’esistenza di un solido rapporto tra attività agricola sostenibile ed equilibrio naturale, circostanza che tende a diffondere l’idea che il paesaggio di un’agricoltura estensiva finisca per essere quello naturale. Si tratta di due cose comunque diverse.
L’agricoltura, l’allevamento e la silvicoltura, come altre attività, sono comunque elementi artificiali, anche se necessari e praticati da secoli, poiché concentrano in aree delimitate piante ed animali appartenenti ad una stessa specie e selezionano per conseguenza i loro parassiti più di altri; tali attività si valgono di piante selezionate dall’uomo, che spesso non reggono la competizione con le specie selvatiche e che pertanto hanno bisogno di un intervento ‘esterno’, che incrementi la loro competitività a fini produttivi.
Pertanto il paesaggio rurale più tipico ed apprezzato, analizzato nei suoi elementi, evidenzia spesso in modo rilevante l’opera dell’uomo sull’ambiente-territorio, ammorbidita dalla tendenza della natura a prevalere. Apprezzando il paesaggio rurale (dal latino Rus-ruris = campagna) si apprezza quindi la secolare opera umana nel tentare di spingere la natura ad assecondare le necessità della produzione agricola.
Considerazioni di questo tipo possono aiutare a far comprendere al turista cittadino, che una maggiore sensibilità e curiosità collettiva verso le esigenze tecniche e specificità della produzione agricola (la cui presenza sul territorio è vincolata alla sua sostenibilità economica), offrono in cambio la permanenza di elementi, che amplificano la bellezza del paesaggio rurale e contribuiscono a mantenere la vitalità del suo complessivo tessuto economico.
Ciò che può comunque essere fatto è impegnarsi per aumentare la sostenibilità ambientale e sociale, dell’agricoltura, ma sempre con attenzione alla competitività del sistema produttivo agricolo territoriale ed alle sue interconnessioni con i settori vicini, che assicurano la disponibilità di alimenti sul territorio, scacciando lo spettro della creazione di ‘deserti alimentari e sociali’.

Un approccio (diffuso) rigidamente naturalista nella valorizzazione del territorio rurale rischia di essere controproducente rendendo tutelabili fino ai limiti del vincolo quei luoghi che presentino ‘rilevanti valori di biodiversità naturale’ e lasciando aree di pianura e collina più vocate per l’agricoltura, in preda di una programmazione del territorio, a volte confusa, che finisce col distruggere il residuo paesaggio agricolo tradizionale e le sue tipicità, altrimenti utilizzabili per il marketing di prodotti e servizi (agri)turistici del territorio rurale, facendo in tal modo prevalere attività produttive, spesso aventi anche un maggiore impatto sull’ambiente-paesaggio. Entrambe le circostanze si riflettono comunque sull’esercizio dell’attività agricola, nel primo caso essa è limitata, nel secondo in competizione con altri usi del suolo; queste circostanze in zone marginali ed isolate potrebbero divenire pregiudizievoli per la disponibilità di alimenti in loco.

L’esigenza collettiva di un’agricoltura sostenibile e produttiva, che anche rivitalizzi i territori agricoli marginali potrebbe essere conseguita affiancando all’agricoltore la costante presenza di assistenza tecnica all’agricoltura, necessariamente pubblica laddove la prestazione di servizi ad aziende marginali non sia remunerativa. Ciò potrebbe permettere di coordinare progetti, che valorizzino i collegamenti tra produzione locale e riduzione dei trasporti di merci (ed emissioni di gas serra), tra diversificazione colturale/dell’allevamento e tutela della biodiversità agraria (locale e non), progetti che stimolino l’agricoltura part-time come integrazione al reddito familiare , impegno per la riduzione delle emissioni inquinanti nell’ambiente e accesso degli agricoltori alle sovvenzioni disponibili attraverso i Piani di Sviluppo Rurale (PSR).
Infine, in una ormai prossima prospettiva di modifica della Politica Agricola Comunitaria (PAC), la creazione di limitate quote latte agevolate, non cedibili, ad uso e consumo delle sole zone marginali, unita alla possibilità di vendita al dettaglio da parte dell’allevatore, potrebbe forse aiutare la disponibilità di alimenti, far decollare un vero turismo agricolo nelle zone marginali e quindi riannodare in questi luoghi il legame, anche economico, tra agricoltori e popolazione rurale.